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Sulle missioni

17 Giugno 2015 // OSA Italia

Il teologo Vito Del Prete, Segretario generale della Pontificia Unione Missionaria, rilancia le “provocazioni” di Papa Francesco: «si gestiscono gli organismi missionari scimmiottando le metodologie e le logiche di profitto perseguite dalle multinazionali»

gianni valente
roma

I soldi possono diventare «la rovina» della missione. E gli organismi di sostegno dell’opera missionaria non devono trasmutarsi in «un ufficio di distribuzione di sussidi ordinari e straordinari». Perché «una Chiesa che si riduca all’efficientismo degli apparati di partito è già morta, anche se le strutture e i programmi a favore dei chierici e dei laici “auto-occupati” dovessero durare ancora per secoli». Così Papa Francesco si è rivolto di recente ai più di cento direttori nazionali delle Pontificie opere missionarie, che come ogni anno avevano dedicato buona parte della loro Assemblea romana proprio a discutere di sussidi, fundraising e progetti da finanziare. Le Parole papali potevano suonare urticanti alla rete globale dei “grandi collettori” incaricati anche di raccogliere in ogni Paese i fondi e le offerte per finanziare i progetti e i programmi legati all’attività missionaria. Eppure, anche tra gli “addetti ai lavori” dei Palazzi vaticani c’è chi avverte da tempo le derive preoccupanti prefigurate dal Vescovo di Roma. «Il Papa ha individuato il cuore del problema» spiega a Vatican Insider padre Vito Del Prete. Missionario del Pime, teologo, professore nelle facoltà laiche e ecclesiastiche in Italia e Myanmar, Bangladesh e Cambogia, il segretario generale della Pontificia Unione Missionaria – che è anche responsabile dell’Agenzia Fides – individua precedenti suggestivi per l’allarme lanciato da Pontefice gesuita: «le stesse cose le diceva e scriveva già nel 1929 il beato Paolo Manna. Non lo hanno ascoltato. Chissà se ascolteranno Papa Francesco».

Oggi in quale contesto è chiamata a operare la vocazione missionaria della Chiesa?

Ci troviamo come in mezzo a un guado. Tutto tira avanti a basso costo, in una nebbiolina relativista e funzionalista che penetra in maniera impercettibile in ogni cosa, anche nel modo di considerare la missione. L’altra faccia della medaglia è una reazione identitaria e fondamentalista che non infetta solo le comunità religiose.

E tutto questo come si riflette negli organismi e nelle iniziative che riguardano la missione?

La cosa più evidente è che si danno per scontate le ragioni e le sorgenti dell’opera apostolica. Si parla, si organizza, si fanno tante cose, tranne comunicare i tratti elementari e sorgivi dell’esperienza cristiana. C’è un nuovo funzionalismo che vuole applicarsi anche alla missione apostolica affidata alla Chiesa, e che ci porterà alla rovina. Si gestiscono gli organismi missionari scimmiottando le metodologie e le logiche di profitto perseguite dalle multinazionali. Mentre il Papa ha detto che «il primo modo di morire è quello di dare per scontate le “sorgenti”, cioè Chi muove la Missione. Si finisce per tagliare fuori Gesù Cristo dall’opera missionaria, che è opera Sua. Perché solo Lui può toccare i cuori dei singoli.

Quale immagine di Chiesa viene comunicata da una missionarietà “funzionalista”?

L’immagine di una Chiesa auto-sufficiente, che si fonda su se stessa, sui suoi mezzi, le sue strategie. Una Chiesa che al mondo racconta se stessa, le sue imprese, i suoi successi, e non Cristo. Ci dimentichiamo che già nel Nuovo Testamento alle sette Chiese dell’Apocalisse veniva rimproverata la loro mentalità mondana, la fiducia che ponevano in se stesse.

Come ci si può sottrarre a questa deriva autoreferenziale?

Il metodo è sempre lo stesso: guardare al Vangelo e a quello che Gesù ha detto e fatto nel Vangelo. Cristo non ha dato mai una definizione funzionale e “geometrica” di come cresce il Regno di Dio. Ha parlato del piccolo gregge, della perla, del lievito, del piccolo seme che cresce impercettibilmente, senza che l’agricoltore lo vegli giorno e notte. Dio fa crescere il Regno attraverso chi non conta, perché nessuno possa vantarsi dicendo che la crescita del Regno è opera sua. Ma tutto questo non può rimanere solo come un armamentario di sterili spiritualismi da mettere in apertura di qualche conferenza. Occorre che il dinamismo di grazia con cui cresce il Regno di Dio giudichi anche i criteri concreti e operativi di tutte le attività pratiche legate alla missione. Altrimenti più ci agitiamo, e più facciamo ombra all’opera di Dio.

Riguardo a questo, da decenni si parla di “Nuova Evangelizzazione”. Hanno creato anche ad hoc un nuovo dicastero vaticano.

Ma ogni autentica evangelizzazione è sempre nuova, come ha scritto Papa Francesco nella Evangelii gaudium. Dando tra l’altro il colpo definitivo a tante frase fatte e ai vuoti conformismi sulla “nuova evangelizzazione” che ci hanno assillato per anni.

Lei ha citato la Evangelii gaudium. Che effetto ha avuto quella Lettera apostolica sulla riflessione riguardante le missioni?

Le parole della Evangelii gaudium sono state archiviate come “letteratura”. Mi colpisce il gorgo di silenzio in cui quel documento è stato fatto scivolare anche negli ambienti missionari. Al massimo ci fanno sopra qualche convegno. Mentre si tratta di un testo operativo, che dà un’infinità di immagini e suggerimenti concreti su come può cambiare la prassi pastorale in una Chiesa che si riconosca «in stato permanente di missione».

Quale bussola bisogna seguire? E cosa occorre evitare?

Se gli organismi di cooperazione missionaria non hanno sempre presente il dinamismo, i fallimenti e i bisogni dell’attività missionaria sul campo, si trasformano fatalmente in apparati sempre tesi a auto-giustificare la propria esistenza. Così si intristiscono o finiscono per assomigliare a tutte le altre organizzazioni di aiuto umanitario, impegnati a raccogliere e ridistribuire i soldi delle offerte e delle giornate missionarie. Si finisce per credere che basti un brand originale, un marchietto grafico brevettato col copyright per identificarci e distinguerci dagli altri, nell’immenso mercato delle companies che fanno pubblicità a se stesse. La figura del “prete manager”, irrisa tante volte anche da Papa Francesco, ho l’impressione che abbia attecchito anche nel campo missionario.

Lei ha citato padre Manna, il missionario del Pime che diede vita anche alla Pontificia Unione missionaria, di cui lei è oggi segretario generale.

Quando era superiore del Pime, padre Paolo Manna compì un viaggio di 14 mesi in giro per il mondo per visitare le missioni, soprattutto quelle dell’Asia. Dopo quell’esperienza, nel 1929, scrisse un dattiloscritto rimasto inedito fino a dopo il Concilio, che rappresenta ancora oggi una critica radicale, attualissima e profetica alla «via torta su cui si è messo il moderno apostolato».

Quali erano i punti essenziali della sua critica?

Padre Manna vedeva che proprio il modo “occidentalista” di realizzare la missione finiva per ostacolare l’incontro con Cristo. Scriveva che «Le Missioni, per il loro carattere spiccatamente occidentale, si presentano agli infedeli come organizzazioni di stranieri. I pagani, quelli che capiscono, quelli che contano qualcosa, non vedono Gesù Cristo in prima linea nella propagazione della fede. Vedono la scuola, l’ospedale, vedono altre grandi e belle opere, vedono soprattutto degli stranieri ricchi e potenti, e nei convertiti degli uomini soggetti a questi stranieri per i benefici che ne hanno avuto o che sperano di averne». Secondo lui l’apparato di queste opere nel suo complesso finiva per essere quasi «un sonnifero per il vero apostolato delle anime, che è la predicazione evangelica». E concludeva: «Quanto più fruttuoso sarebbe stato il nostro Apostolato in mezzo ai popoli, se avessimo potuto presentarci ad essi da soli, appoggiati unicamente al Vangelo e alla Grazia di Dio!»

E cosa diceva padre Manna riguardo ai soldi e e all’invio di risorse per sostenere le missioni e le giovani Chiese?

Quello era un punto chiave della sua critica. «Oggi» – scriveva – è preoccupante vedere come l’idea dell’indispensabilità del denaro sia penetrata nella mente dei missionari odierni». Per lui, proprio la prassi e la teoria con cui era praticato il sistema di finanziamento erano all’origine della debolezza e del fallimento delle missioni. «Lo Spirito Santo» scriveva Manna «deve oggi fare i conti con gli economi delle missioni, e può permettersi di spingersi solo dove lo lo consentono le finanze». Così, il cristianesimo continuava a essere per i popoli una religione d’importazione sostenuta dal denaro, e dal denaro “forestiero”. Si attribuiva di fatto ai soldi la possibilità di un progresso nella diffusione della fede. E proprio per questo lui arrivava a augurarsi «che alle missioni venga meno oggi sussidio dall’estero». A giudicare dalle cose che si sentono in certi convegni missionari, le cose non sono in fondo cambiate. E continuano a dargli ragione.

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